Più nello specifico, il creditore (sempre) munito di un titolo esecutivo, può dare corso all’espropriazione forzata con l’atto di pignoramento presso terzi. Per intenderci il creditore, in forza di una sentenza o di un atto equipollente, può trovare soddisfazione delle proprie pretese di credito mediante il pignoramento del conto corrente o dello stipendio del debitore. In altre parole, con la notifica allo stesso debitore e al terzo pignorato (banca o datore di lavoro), il creditore – per il tramite dell’Ufficiale Giudiziario – appone una sorta di vincolo (in suo favore) sulle somme dovute dall’istituto di credito o dal datore di lavoro al debitore.
Tali somme, infatti, dovranno essere trattenute dai terzi e, successivamente – in forza di un ulteriore provvedimento del Giudice dell’Esecuzione -, versate al creditore proprio in forza del titolo esecutivo.
E con i bitcoin? È possibile ricorrere al meccanismo del pignoramento presso terzi anche nei casi di moneta virtuale?
Ma facciamo un passo indietro.
I bitcoin sono la forma più utilizzata di moneta virtuale o di criptovaluta.
Sono quindi un mezzo di pagamento caratterizzato dal fatto di essere immateriale; inoltre, non hanno corso legale: valgono soltanto se chi li riceve li accetta come forma di pagamento, non essendo “riconosciuti” dallo Stato.
Essendo immateriali, per il loro utilizzo è necessario aprire un conto di deposito virtuale (wallet) mediante apposite piattaforme on line. Tali piattaforme funzionano come dei propri e veri “cambio valuta”: a fronte del versamento di moneta avente corso legale (Euro o altra valuta), è possibile acquistare (o convertire) tali somme in criptovalute (bitcoin).
Tali criptovalute, poi, verranno utilizzate per effettuare pagamenti verso altri soggetti disposti ad accettare tale valuta virtuale.
È dunque possibile procedere al pignoramento dei bitcoin?
In linea teorica, la risposta è sì.
Nulla vieta, infatti, che la moneta virtuale e, più in generale, il wallet sia sottoponibile al “meccanismo” del pignoramento presso terzi, così come previsto dall’art. 543 del c.p.c..
Ma la pratica è ben diversa.
Ora, quando si crea un wallet, viene generata dal servizio prescelto una stringa alfanumerica, che viene definita chiave privata e che serve per “operare” sullo stesso. Da questa, tramite un algoritmo, si ricava, poi, una seconda stringa alfanumerica, che viene definita chiave pubblica e che identifica il wallet. Tale processo è univoco, nel senso che da una chiave pubblica non è possibile ricavarne una privata.
Quindi, in realtà, in un wallet non sono propriamente contenute delle criptovalute, ma esse sono costituite da dati scritti solo nella blockchain; tramite la propria chiave privata, poi, sarà possibile recuperare dalla stessa blockchain i propri fondi e disporne come si desidera.
A questo punto, però, occorre fare una precisazione. I wallet si distinguono, infatti, in custodial e non-custodial. Con i primi, il proprietario delle criptovalute delega la custodia della propria chiave privata d’accesso a società terze (wallet Exchange); con i secondi, al contrario, la chiave privata d’accesso è in possesso solamente del proprietario dei bitcoin.
E la differenza non è di poco conto.
Custodire in prima persona la propria chiave privata d’accesso (wallet non-custodial), ovvero essere l’unica persona in grado di accedere al proprio conto virtuale, rende la pignorabilità dei bitcoin pressoché infattibile: di fatto, senza il suo consenso sarà impossibile dare corso all’espropriazione forzata.
Al contrario, per i wallet Exchange, dove non è il proprietario a custodire la chiave privata d’accesso (è in possesso di una semplice password), ma tale responsabilità è delegata proprio a società terze, il pignoramento potrebbe essere più proficuo, tenuto comunque conto che tali società di diritto privato – iscritte nei pubblici registri – sono soggette alla Legge del paese d’appartenenza.
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