Una fondazione, istituita dall’amministrazione comunale per la gestione delle strutture sanitarie, si rivolge ad una banca al fine di ottenere un’apertura di credito (cosiddetto “fido”) e il Comune, a garanzia, costituisce un pegno sulle proprie partecipazioni azionarie in una s.p.a. interamente partecipata da enti pubblici. Successivamente, stante l’inadempimento della fondazione, l’istituto di credito agisce esecutivamente. Il Comune (terzo datore di pegno) propone opposizione all’esecuzione e incardina altri due procedimenti contro la banca volti ad ottenere la declaratoria di nullità dell’atto dichiarativo di pegno.
La Corte di Cassazione, Sezione III, con l’ordinanza del 1° febbraio 2024, n. 3000 (testo in calce), per risolvere l’articolata questione, risalente al lontano 1997, ricostruisce in maniera didascalica l’istituto del pegno. Innanzitutto, ricorda che il creditore pignoratizio è titolare dello ius distrahendi, vale a dire la facoltà di far vendere il bene concesso in pegno per soddisfarsi, in via preferenziale, sul ricavato. La vendita può seguire la forma ordinaria dell’espropriazione forzata mobiliare oppure il procedimento semplificato (artt. 2796 e 2797 c.c.). Nel caso di specie, viene in rilievo proprio tale procedura, in cui il creditore deve notificare, tramite l’ufficiale giudiziario, un’intimazione di pagamento con l’avvertimento che, in difetto, si procederà alla vendita del bene costituito in pegno. A questo punto, il debitore può presentare opposizione entro 5 giorni, se non si oppone, oppure se l’opposizione è proposta ma viene rigettata, il creditore può procedere alla vendita. L’opposizione alla vendita della cosa data in pegno (ex art. 2797 c.c.) va considerata come un’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. e, nell’ipotesi di espropriazione contro il terzo proprietario (nel nostro caso, il terzo datore di pegno, ossia il Comune), il debitore originario (ossia la fondazione) è litisconsorte necessario, poiché è il soggetto nei confronti del quale produce effetti l’accertamento della sussistenza e dell’entità dei crediti posti a base dell’azione esecutiva contro il terzo. Pertanto, una sentenza pronunciata senza il litisconsorte necessario è inutiliter data e la conseguente nullità può essere rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità con rinvio al primo giudice.
La vicenda
La vicenda inizia nel lontano 1997 quando un’amministrazione comunale crea una fondazione di diritto privato a cui affida la gestione delle strutture sanitarie nel territorio del Comune. L’ente appena creato investe in infrastrutture a servizio dell’ospedale e, per questo, si rende necessario il ricorso al credito bancario. Il Comune, con apposita delibera, autorizza la costituzione di un pegno sulle proprie partecipazioni azionarie in una s.p.a. (circa 11 mila azioni del valore di 1 milione di lire ciascuna) a favore dell’istituto di credito. Il dirigente comunale viene incaricato di effettuare le operazioni di prelievo e deposito dei titoli azionari necessari per la costituzione della garanzia. Infine, il pegno viene costituito per la durata massima di 9 anni e con riserva del diritto di voto in capo al Comune (ex art. 2352 c.c.). A fronte di tale garanzia la banca concede alla fondazione un fido misto utilizzabile in conto corrente. Nel 2007, l’istituto di credito revoca il fido e intima con atto ex art. 2797 c.c. il pagamento del debito, preavvertendo che, in caso contrario, avrebbe escusso la garanzia prestata dal terzo (ossia il Comune).
Nel 2010 il Comune, in qualità di proprietario delle azioni e di terzo datore di pegno, intraprende due separati giudizi contro l’istituto di credito: a) un atto di opposizione alla vendita ex art. 2797 c.c. e b) un atto di citazione. Con il primo procedimento (sub a), il Comune chiede l’accertamento e la dichiarazione della nullità dell’intimazione di pagamento notificata nel 2007 e della procedura esecutiva; con il secondo (sub b), chiede l’accertamento della nullità degli atti costitutivi del pegno, con conseguente liberazione delle azioni, in quanto compiuti in violazione di norme imperative. Nel 2012, con altro atto di citazione, il Comune evoca in giudizio la banca deducendo ulteriori cause di invalidità degli atti costitutivi del pegno, come il difetto della forma pubblica (ex R.D. 2440/1923) e il difetto di legittimazione negoziale dell’amministrazione comunale, dal momento che gli atti riguardavano la gestione dei servizi sanitari, materia di competenza esclusiva della Regione. Questo procedimento viene riunito al precedente (sub b).
Per quanto qui di interesse, in relazione al primo procedimento (sub a), il Tribunale accoglie l’opposizione presentata dal Comune e dichiara inefficaci i due contratti costitutivi del pegno, in quanto privi del riferimento alla durata e alla riserva di voto (ex art. 2352 c.c.) e la decisione viene confermata in sede di gravame.
In relazione agli altri due procedimenti riuniti (sub b), in primo e secondo grado, la domanda del Comune viene rigettata.
Si giunge così in Cassazione.
Premessa: il pegno in generale
Prima di analizzare la decisione, giova ricordare brevemente l’istituto in commento.
Il pegno è un diritto reale di garanzia su beni mobili (non registrati), universalità di mobili, crediti e altri diritti reali mobiliari, appartenenti al debitore o ad un terzo (nel nostro caso, il Comune è il terzo datore di pegno) ed è costituito a garanzia dell’obbligazione assunta dal debitore (nella fattispecie in esame, l’obbligazione è stata assunta dalla fondazione costituita dall’amministrazione comunale).
Il pegno attribuisce al creditore:
- lo ius praelationis, ossia il diritto di soddisfarsi con priorità sul ricavato della vendita coattiva del bene concesso in pegno rispetto ad altri creditori (art. 2787 c. 1 c.c.),
- lo ius sequelae (diritto di seguito), vale a dire il diritto del creditore rimane inalterato anche nel caso in cui il bene sia trasferito a terzi, purché la cosa sia rimasta in suo possesso; quindi, è sempre opponibile a terzi acquirenti (art. 2787 c. 2 c.c.)
Il pegno si costituisce tramite un accordo contrattuale tra il debitore (o il terzo) e il creditore; si tratta di un contratto reale, giacché si perfeziona con la consegna del bene o del documento. Pertanto, la costituzione del pegno postula uno spossessamento del debitore (o del terzo datore di pegno). Inoltre, il contratto:
- deve essere scritto,
- recare data certa,
- indicare specificamente il credito garantito e il bene costituito in pegno (art. 2787 c. 3 c.c.).
Il terzo datore di pegno a garanzia di un debito altrui
Il pegno ha natura accessoria rispetto al credito garantito e si estingue allorché il rapporto obbligatorio venga meno. Il terzo datore di pegno – nel nostro caso, il Comune – concede un proprio bene a garanzia di un rapporto obbligatorio altrui, pur essendo un soggetto estraneo al rapporto. In buona sostanza, il terzo datore – come il fideiussore – garantisce il debito altrui ma risponde dell’obbligazione limitatamente al valore del bene dato in pegno, mentre il fideiussore risponde con tutti i propri beni. Si tratta di una responsabilità limitata al bene oggetto di garanzia, pertanto, in caso di inadempienza del debitore principale, dovrà subire l’azione esecutiva contro il proprio bene.
La vendita del bene concesso in pegno: la procedura semplificata
Il creditore pignoratizio in seguito alla costituzione del pegno:
- ottiene il possesso del bene pignorato, stante lo spossessamento del titolare del bene; egli non può usare né disporre del bene (art. 2792 c.c.) ma è legittimato ad esperire sia le azioni possessorie sia, ove necessario, l’azione di rivendicazione (art. 2789 c.c.),
- ha facoltà di domandare al giudice l’assegnazione in pagamento del bene pignorato, fino alla concorrenza del credito (art. 2798 c.c.), in tale caso, il bene viene stimato dal giudice, salvo che non abbia un prezzo di mercato;
- ut supra ricordato, gode del diritto di prelazione e del diritto di sequela.
Tra i diritti facenti capo al creditore pignoratizio, preme ricordare lo ius distrahendi, vale a dire la facoltà di far vendere il bene concesso in pegno per soddisfarsi, in via preferenziale, sul ricavato. La vendita può seguire due strade:
a) la forma ordinaria dell’espropriazione forzata mobiliare come disciplinata dal Codice di procedura civile,
b) oppure il procedimento semplificato individuato dal Codice civile (artt. 2796 e 2797 c.c.).
Tale ultima procedura (sub b) non richiede che il creditore si munisca di un titolo esecutivo, ma deve solo notificare tramite l’ufficiale giudiziario un’intimazione di pagamento con l’avvertimento che, in caso di mancato pagamento, si procederà alla vendita del bene costituito in pegno. A questo punto, il debitore può presentare opposizione entro 5 giorni, se non si oppone, oppure se l’opposizione è proposta ma viene rigettata, il creditore può incaricare l’ufficiale giudiziario di procedere alla vendita all’incanto o al prezzo corrente di mercato «(secondo uno schema analogo a quella previsto per la esecuzione coattiva del contratto di vendita di beni mobili: art. 1515 c.c.), sempre che le parti non abbiano concordato forme diverse di vendita».
Oggetto del pegno: il pegno regolare e irregolare
I giudici di legittimità ricordano che:
- nel pegno regolare il creditore ha solo il possesso del bene concesso in pegno che deve restituire, una volta esaurito il rapporto; come abbiamo visto, esso può essere costituito su beni mobili (non registrati), universalità di mobili, crediti ed altri diritti aventi per oggetto beni mobili infungibili;
- nel pegno irregolare il creditore ha la proprietà del bene costituito in pegno ed è obbligato a restituirne la stessa quantità; in questa ipotesi, il pegno ha ad oggetto beni fungibili, purché esattamente determinati, come somme di denaro, merci e titoli di credito; «in caso di inadempimento del debitore, al creditore non sarà necessario attivare la procedura di vendita (o di assegnazione) del bene: tutto si risolverà in una mera operazione contabile di compensazione, fino alla reciproca concorrenza, tra l’ importo del credito e l’ammontare della somma di denaro (o il valore della merce o dei titoli) dati in garanzia».
Possono essere concesse in pegno anche le azioni o quote di società di capitali, in tal caso, “l’essenza del pegno sta nel consentire al creditore pignoratizio di poter direttamente incidere sulla vita della società e, quindi, vigilare sull’integrità e sulla capienza del patrimonio sociale”. Si ricorda che, nel caso di pegno di azioni, il diritto di voto compete al creditore pignoratizio salvo che non sia diversamente disposto (art. 2352 c. 1 c.c.).
Conclusioni: contraddittorio non integro, decisione nulla, si ritorna in primo grado
I giudici di legittimità rilevano come in questa vicenda, principiata nel lontano 1997, il contraddittorio non sia integro. Infatti, l’opposizione alla vendita della cosa data in pegno (ex art. 2797 c.c.) va considerata come un’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. e segue le relative regole processuali (Cass. 21908/2008). Nell’ipotesi di espropriazione contro il terzo proprietario (nel nostro caso, il Comune, terzo datore di pegno) il debitore originario (ossia la fondazione) è litisconsorte necessario, poiché è il soggetto nei confronti del quale l’accertamento della sussistenza e dell’entità dei crediti posti a base dell’azione esecutiva contro il terzo è destinato a produrre effetti immediati e diretti. Nel caso in cui il debitore principale non venga evocato in giudizio, la sentenza resa nella controversia distributiva è inutiliter data. La nullità che ne deriva, allorché non rilevata in sede di merito, deve essere rilevata d’ufficio dal giudice di legittimità con rimessione della causa al giudice di primo grado (Cass. n. 8891/2015).
Nella fattispecie in esame, la fondazione, debitore originario, non è stata evocata in giudizio, pertanto, la Suprema Corte, ai sensi dell’art. 383 c. 3 c.p.c., cassa le sentenze di primo e secondo grado e rimette la causa al Tribunale, giudice di primo grado ed in persona di diverso giudicante, affinché riesamini la controversia una volta restaurata l’integrità del contraddittorio.
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